Recensione di Humbug scritta in Agosto.
Il tempo è uno strumento che va usato con perspicacia e calma. Il tempo dona l’ineguagliabile possibilità di continuare, cambiare o modificare qualunque cosa si stia facendo o vivendo. Il tempo per gli Arctic Monkeys è stato sfruttato affinché la loro musica, il loro modo di comporre canzoni e, inesorabilmente, il loro look cambiasse tanto quanto serviva per rimanere con una propria identità e un proprio sound, ma evolvendoli ad un livello artistico superiore. Il risultato di questo processo durato due interminabili anni si chiama Humbug. Se con “Favourite Worst Nightmare” la loro maturità come band si era notevolmente avvicinata ai grandi gruppi rock contemporanei ora la situazione è progredita notevolmente incoronando i quattro ormai non più “ragazzini” di Sheffield come quattro musicisti di livello formidabile per la loro abilità nel suonare i propri strumenti e nel comporre, soprattutto nel caso di Alex Turner, vere e proprie poesie tramutate in testi per canzoni. Già dalle prime composizioni questa particolare caratteristica del front-man è apparsa quasi un marchio di fabbrica, come a voler urlare al mondo che l’ermetica e il linguaggio figurato non sono poi una bestemmia all’interno di una traccia rock. Guardando la copertina del nuovo album già si capisce che qualcosa di strano c’è. Ci si aspetta un inizio di album “bomba”, come nei due precedenti ed in effetti il rullante di Matt si fa sentire come l’inizio di una parata militare di sicuro esito vittorioso. My Propeller, la prima traccia, è un pezzo piuttosto grunge, lontano dalle vecchie e frenetiche The view from the afternoon e Brianstorm, che esalta, e questa non è una novità, il basso di Nick, il quale con sapienza scandisce ciò che sarà la melodia portante della canzone. Anche in questa occasione si alternano momenti di silenzio con momenti di assoluto movimento accompagnati dalla chitarra di Jamie e dall’interminabile urlo di Alex ripetendo con maliziosa rabbia il titolo della canzone stessa. Non si fa in tempo a smaltire l’ottima, seppur insolita, My Propeller, che subito l’ambiente diventa più tetro, più dark, più rock. Il basso comincia subito alla grande facendo muovere i woofer quasi come fossero delle molle leggere indicando all’ascoltatore quale sarà il comune denominatore di ciò che è il primo singolo ufficiale di Humbug: Crying Lightning. Il racconto di Alex inizia, Matt lo accompagna con sagacia seguendo tuttavia le turbolenze sonore causate da Nick. Lo struggente suono delle chitarre canta insieme a loro assecondandoli con delle grida psichedeliche di altissimo livello, le stesse che hanno a loro tempo tempo celebrato la suggestiva 505 anche grazie al prezioso aiuto dell’amico Miles Kane, percorrendo un’onda succube di sonorità riprese qua e là dall’archivio personale della band poste in un frullatore di note ben più prezioso del relativo video, ahimè, apprezzabile ma inspiegabilmente banale, almeno per i nostri beniamini. Finisce con un grido la seconda opera e inizia con un coro la terza; Dangerous Animals rispecchia l’accattivante titolo nella canzone stessa continuando ciò che i lenti ma focosi timbri dei nostri quattro hanno iniziato. Un pezzo dalla musicalità cattiva e sorprendente coronato a metà traccia da un interminabile assolo di Matt che riesce con estrema facilità a produrre battiti intriganti e divertenti con le proprie bacchette quasi fossero magiche ma allo stesso tempo così reali da far sorridere chi li ascolta. L’epilogo di questo lungo inizio coincide con l’introduzione di un pezzo, obiettivamente parlando, bello, meraviglioso, al limite di un orgasmo acustico che s’intuisce arriverà in pochi istanti. La parata di Alex è appena iniziata e non bastano quei simpaticoni dei giornalisti scandalistici britannici a indurlo a cantare e a suonare con il coltello fra i denti. The Secret Door ha la magia nelle corde della chitarra appena sfiorate da dita tutt’altro che ignoranti. Accompagnato dall’elettronica del synth richiama in sé tutto un amplesso di suoni resuscitati direttamente dall’epoca progressiva della fine degli anni 80’. Le parole di Alex sembrano degli scioglilingua, incomprensibili per delle orecchie latine non allenate al suo modo di esprimersi reale e discorsivo; Il ritornello, che coincide con la parte finale della canzone, è il risultato di tutto ciò che gli Arctic Monkeys hanno imparato negli anni non solo suonando ma interpretando qualcosa di straordinariamente originale. La conclusione è tempestata dal coro dei restanti tre mentre Mr Turner si diverte a richiamare l’attenzione dei suoi presunti e amichevoli nemici. Si arriva a Potion Approaching che, in definitiva, resuscita quei riffs tanto semplici quanto succulenti che venivano ascoltati nell’antecedente album. Semplice ma efficace, ecco la formula vincente per continuare a stupire e arricchire un lavoro fin qui bello ma non ancora ultimato. Linearità e improvvisazione fino a terminare con quel ritmo udibile e più adatto a chi s’accontenta di sonnecchiare piuttosto che drogarsi si musica. Non proprio sconosciuta per le memorie di chi li segue ma Fire and the Thud appare una canzone studiata, precisa, meticolosamente suonata e cantata. E’ una canzone che non solo riporta quella voglia grunge nei propri spartiti ma che consacra gli Arctic Monkeys come rock band in tutto e per tutto ed è cosi che l’assolo di chitarra ci fa ricordare come gli Oasis abbiano influenzato e non poco il loro immutabile stile. Fire and the thud è preludio di ciò che è forse il lavoro che più si avvicina all’arte della musica; è una storia d‘amore, una romantica ballata, una dichiarazione originale per una donna immaginaria, irraggiungibile, amata. Rispuntano qua sonorità venute dagli anni dei figli dei fiori, atmosfere progressive-pop anni 80’, le quali rispecchiano in sé tutto il bello degli Arctic Monkeys con il loro personalissimo romanticismo, la loro determinazione e decisione nel pizzicare le corde, nel picchiare sulla batteria, nello sfruttare il synth rendendo lo stesso parte integrante di un sound nuovo e speciale. In una parola solamente: Cornerstone. Si assiste ad un revival beatlesiano ed ecco qua qualcosa che farebbe piacere al nostro povero George Harrison. L’ottava canzone è Dance little Liar. Accattivante e ammiccante come i loro creatori. L’eco della chitarra delizia i nostri sensi uditivi, la voce di Alex la ascoltiamo con piacere come se ci parlasse per telefono, Nick e il suo inseparabile basso fanno il solito importante lavoro mentre Matt batte sempre più forte fino a scatenarsi, per poi addormentarsi in attesa di un evento, quello che avviene dopo, che ha l’aria di una visita inaspettata ma carina. L’attacco dell’organo ci lascia ben sperare. La melodia ci trasporta verso una nuova dimensione. Matt ci fa scatenare. John Ashton, il nuovo tastierista arruolato per i concerti, ci estranea. “All the pretty visitors came and waved their arms and cast the shadow of a snake pit on the wall”. Urlano tutti insieme. Pretty visitors è la canzone numero nove. Pretty Visitors è un misto di rock, heavy, hard rock, metal, punk, progressive, alternative. Una bacinella di generi musicali tosti e gagliardi pronti ad essere mischiati da un frullatore e riscaldati dal calore di 8 mani tanto forti quanto raffinate troppo, forse, per essere totalmente capito da orecchie ignoranti. L’epilogo ci stupisce. Se aspettavamo un pezzo di chiusura alla certain romance o alla 505, ci sbagliavamo. Qui si parla, udite udite, di soul, vero soul, soul alla Winehouse, s’intende, modernizzata dai quattro ragazzotti di Sheffield. È un pezzo introspettivo, più intimo, guidato da un ritmo lento, morbido e avvolgente, che scandisce atmosfere rarefatte, da nightclub all’ora di chiusura. L’ultima canzone dell’album si chiama “The Jeweller’s hand” La voce di Alex, spesso accompagnata da quella di Matt con cui si intreccia in una sorta di intrigante spirale, sembra quasi ricamare parole mentre si susseguono le note, fino a culminare nel ritornello finale, ripetuto più volte affinché risulti chiaro e quasi ossessionante. Verso metà canzone infatti, assistiamo a un crescendo di intensità originato da un rullo leggero di batteria che ci conduce al culmine della canzone e dell’album stesso, in un susseguirsi di echi e di note che si richiamano a vicenda, proprio come le onde concentriche create da un “sinking stone” lanciato nell’acqua. La sensazione principale che si avverte dopo l’ultimo accordo è di sazietà. Questo è un album pieno, denso, e se per qualche fan sarà una “caramella” difficile da mandare giù e digerire, è innegabile che il quartetto abbia raggiunto una poliedricità di stili e una complessità compositiva invidiabili. La struttura stessa delle canzoni è varia e per questo spiazzante, sorprendente; i testi delle canzoni consacrano definitivamente Alex Turner come paroliere di altissimo livello e sensibilità; l’abilità artistica dei restanti tre ha acquisito un’ancora maggiore padronanza degli strumenti e di certo loro non mancheranno l'occasione di deliziare gli spettatori, specialmente nelle perfomances live. Insomma, se di solito è il secondo album il più difficile nella carriera di un artista, questo terzo lavoro si è rivelato più articolato e maturo del precedente e di certo ci inciterà a seguirli in questo continuo migliorarsi e sperimentare una musica, quella musica che ha contraddistinto nel corso degli anni la loro giovane ma straordinaria carriera. Loro sono gli Arctic Monkeys. Questo è l’album Humbug.
A cura di Serpico e Scimmietta Mediterranea
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