Parlano gli Arctic Monkeys: 'Non vogliamo essere onnipresenti'
Sono l’incarnazione di un rock tutto ormoni, brufoli ed esuberanza giovanile ma intanto non lesinano saluti dal palco alle loro mamme (viste ieri sera al Rolling Stone di Milano ballare, sorridere e mandar baci volanti ai loro pargoletti al riparo della pedana sopraelevata del mixer, mentre sotto di loro si scatenava una bolgia da non credere, chitarre e percussioni all’arma bianca, pogo dancing, stage diving e canzoni urlate a memoria da un piccolo esercito di giovanissimi fan estasiati). Hanno riscritto il modello di business dei rapporti tra Internet e musica ma assicurano che loro, il computer, quasi non lo sanno usare e neanche gliene importa. Sono la quintessenza del “new British” in musica, ma confessano di amare la musica surf e il garage punk americano dei Sixties, influenze musicali bene in mostra nel secondo, attesissimo album “Favourite worst nightmare” che esce a fine aprile . Sono ormai famosi in tutto il mondo (e in Italia hanno collezionato la cifra di 14 mila album venduti: tanto più ragguardevole, se si pensa che il loro è un pubblico molto predisposto allo “sharing” e alla copia dei cd…), ma restano orgogliosamente attaccati alle loro radici Yorkshire e “regionali”. “E come potremmo cambiare? Noi siamo così”, ci hanno raccontato poco prima del soundcheck il batterista degli Arctic Monkeys Matt Helders, 20 anni, e il nuovo bassista Nick O’Malley, 21 anni, mentre il frontman Alex Turner era requisito dalle telecamere di Mtv e prima ancora dall’inviato inglese di Q. “Non possiamo adattarci solo perché ora ci ascoltano in tutto il mondo. La cosa più facile e più giusta da fare è continuare a scrivere e cantare delle cose che conosciamo. Allo stesso tempo, però, abbiamo sentito il bisogno di cambiare qualcosa. Sarebbe stato facile scrivere altre dodici canzoni sull’uscire la sera a Sheffield, ma anche noioso e ripetitivo. Il primo disco era quasi come un concept spalmato sull’arco di un weekend, questo è differente. Liricamente non c’è un tema centrale e musicalmente parte forte, ha una parte centrale più tranquilla prima del gran finale con ‘505’. Abbiamo voluto spingere un po’ di più sui ritmi e sui suoni, dimostrare che stiamo imparando a suonare. Abbiamo ascoltato tante cose, nel frattempo: le chitarre surf arrivano da vecchi gruppi come Johnny and the Hurricanes, certe sonorità più dure e psichedeliche dalla scoperta di compilation come ‘Nuggets’…Incidere a Londra invece che a Sheffield ha contato poco, invece, se non per le possibilità in più offerte dallo studio di registrazione. Le canzoni erano quasi tutte scritte da tempo, più che altro abbiamo avuto modo di rilassarci e più scelta sul come passare la serata una volta finito di lavorare. Abbiamo prodotto parecchio, 19 canzoni incise 12 delle quali sono finite sul cd: oltre a qualche b-side potrebbe scapparci un altro Ep”.
Quelle selezionate per il disco nuovo fanno trapelare cosa è cambiato, intanto, nelle loro vite: “Sì, ‘If you were there, beware’ racconta di quel che è successo dopo l’esplosione di popolarità. I giornalisti si sono messi alla caccia di amici, fidanzate ed ex, suonavano al campanello dei nostri nonni per rubargli una foto da pubblicare: la canzone è una specie di avvertimento a tenersi pronti. Dopo un po’ per fortuna i tabloid si sono calmati e ci hanno lasciato in pace, ma ora col nuovo disco potrebbe arrivare un nuovo assalto”. Infastiditi da tutto questo bailamme? “Beh, ovviamente è eccitante leggere tutte quelle recensioni e quei pareri positivi sul nostro conto anche se non sai mai se tutto è come sembra e se tra un anno quelle stesse persone ti getteranno nel cestino della spazzatura. Noi cerchiamo di non prenderla troppo seriamente, di concentrarci sulle nostre prossime mosse. E’ anche per questo che abbiamo deciso di stare un po’ più in disparte, di concedere meno interviste e di andare poco in tv. Serve a tenerci un po’ fuori dagli sguardi indiscreti, non vogliamo riempire tutti gli spazi e dobbiamo pensare a recuperare i nostri. Con tutta questa popolarità ci sentiamo obbligati a lavorare ancora più sodo, questo è sicuro”. Anche la copertina del nuovo disco, come la precedente, non mostra i loro volti. Un altro modo per cercare di difendere la privacy? “Sì, le nostre facce finiscono già sulle copertine delle riviste musicali…Ma questa è un’altra cosa, un album destinato a durare, e ci piace tenere un atteggiamento più discreto, farci riconoscere il meno possibile. Ci abbiamo dedicato tempo e discussioni, è una copertina ambiziosa. Riproduce una vera casa di Liverpool, ritratta davanti e dietro. Abbiamo provato a immaginare che cosa potesse succedere all’interno, di lì quei quadri colorati in stile pop art”.
Il titolo e il testo di “505”, invece, prendono spunto da una delle tante stanze d’albergo che i quattro Arctic Monkeys hanno frequentato negli ultimi tempi, viaggiando in giro per il mondo: “Siamo stati già quattro volte negli Stati Uniti, tre in Giappone, e anche in Australia. In America dovevamo falsificare i documenti di identità: altrimenti non ci davano da bere alcolici perché siamo troppo giovani. Uscivamo dal club che si rifiutava di servirci e andavamo al negozio o al bar di fronte… In Australia invece abbiamo partecipato a dei party da non credere, ci siamo divertiti come matti! E in Giappone abbiamo incontrato per la prima volta Noel Gallagher. Eravamo intimiditi, è stato lui a chiederci di andare in camerino. Ogni volta che succede una cosa del genere, che qualcuno di così importante vuole conoscerci, siamo sempre un po’ nervosi”. Gli Oasis sono tra gli illustri predecessori citati, insieme a Jam e Blur, quando si tratta di descrivere la loro abilità, e di Turner in particolare, nel descrivere una certa “way of life” britannica e adolescenziale. “Non sta a noi dire se è vero, certo ora non ci vediamo sullo stesso piano di artisti come quelli. Mentre vivi le cose non sei in grado di capire che importanza avranno storicamente, ne riparliamo magari tra vent’anni. Un sacco di gente ci paragona ad artisti che non avevamo mai ascoltato prima. Il primo Elvis Costello, dici? Non sei il primo a citarlo. Quando ci dicono queste cose finisce che per curiosità ci compriamo i dischi e ci accorgiamo che a volte avete ragione”. Oggi anche loro vengono citati spesso, però, e anche da persone insospettabili: lo ha fatto persino il successore designato di Tony Blair, Gordon Brown… “Ma è tutto un bluff, non sapeva neanche un titolo delle nostre canzoni e tutto questo serve soltanto a cercare di accattivarsi le simpatie di qualche ragazzo”. Ridacchiano e scuotono la testa, i due, anche quando pensano alla fama di “geni del marketing” che si sono guadagnati con Internet. “Un vero equivoco, l’unica cosa che abbiamo fatto è stata di suonare in giro come matti e distribuire demo ai concerti. Al resto ci hanno pensato i fan, noi il computer lo usiamo solo per controllare la posta e non sappiamo neppure chi abbia fatto gli upload. Siamo per il fai da te, ma alla vecchia maniera. Per questo, anche se alla porta avevano bussato anche le major, abbiamo preferito Laurence Bell e la Domino: si tratta di scegliere le persone con cui ti trovi bene e che sai ti tratteranno nel modo migliore”.
Il tempo a disposizione sta per scadere, ma c’è spazio ancora per qualche domanda secca. Primo concerto visto insieme? “I Vines a Manchester, nel 2003 o giù di lì. Avevamo più o meno sedici anni, ci eravamo procurati i biglietti il mese prima e andammo in treno al luogo del concerto: la nostra prima avventura fuori casa!”. La collaborazione con le Girls Aloud? “Solo voci, non c’è niente di vero”. Film e canzone preferita? Matt: “Io adoro ‘The departed’ di Scorsese”. Nick: “Il mio pezzo preferito del momento è ‘Gathering of the tribe’ dei Macabre, un gruppo di cui non so assolutamente nulla. L’ho trovata sul box set ‘Pebbles trashbox’, musica garage degli anni ‘60”.
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